Disboscatori.
Ebbene sì; se qualcuno chiedesse qual era il passatempo preferito dei santi nel
Medioevo, la risposta più pertinente –anche se magari non la più evangelica–
sarebbe proprio questa.
Chiudiamo gli occhi per un istante e immaginiamoci ovunque alberi sradicati, tronchi abbattuti, peggio, intere foreste rase al suolo. È il paesaggio poco idilliaco di cui si tinge l’Europa dalla caduta dell’Impero Romano fino alla fine del Medioevo –e anche oltre, nelle parti più orientali della Prussia.
Dal
concilio provinciale di Cartagine, che inaugurò la moda nel lontano 397 d.C.,
fino ai sinodi di Alba (1626) e di Alessandria (1702), che vietavano lo
svolgimento della festa del Maggio, è tutto un susseguirsi di Crociate contro
gli alberi. Arbores demonibus consacratae, gli alberi consacrati agli spiriti
del male; sono loro i rivali più temibili con cui tutti i campioni delle
agiografie medievali si devono misurare nelle campagne. E tra questi agguerriti
predicatori, c’è anche chi ci lascia le penne. Come Adalberto, vescovo di Praga,
fatto oggetto nel 997 d.C. di un fittissimo lancio di giavellotti durante una
messa celebrata sull’altare che lui stesso aveva fatto erigere incautamente poco
prima, al posto di un profana arbor. Ma quando non sono i cristiani a farne le
spese, gli alberi ricrescono lo stesso, in barba allo zelo dei predicatori. È il
caso del famoso noce di Benevento, abbattuto nel 663 d.C. da San Barbato e
miracolosamente ricresciuto qualche miglio più avanti secondo la leggenda
tramandata nel trattato De nuce maga beneventana del medico Pietro Piperno. E
che dire, invece, del pino abbattuto «con eroica fede nel Signore»
da San Martino –sì, esatto, proprio quello del mantello–, vescovo della città di
Tours?
Ma
se questa carrellata di aneddoti non vi basta e desiderate qualche nome più
illustre –che so, qualche pezzo grosso della fede che fa sempre notizia–,
pensate allora al caso emblematico di Benedetto da Norcia, attualmente il santo
prediletto dalla Sede Apostolica; mosso da forti intenti evangelizzatori,
arrivato in quel di Monte Cassino, la prima cosa che si premurò di fare
Benedetto fu distruggere un boschetto sacro ad Apollo che sorgeva sulla sommità
del monte. Ma se santi e predicatori impugnavano sovente le asce davanti a faggi
e querceti, i cosiddetti ‘laici’ non erano certo da meno. Basti pensare al
paladino del Sacro Romano Impero Carlo Magno, che nel 772 d.C., giunto a
Geismar, abbatté Irminsul, la quercia sacra ai Sassoni perché ritenuta l’asse
del mondo.
Eppure il cristianesimo medievale non ha gioco contro queste credenze, talmente radicate nel mondo contadino da mettere a repentaglio la sopravvivenza di molte abbazie nel contado all’alba del tredicesimo secolo. La scena che si profila è più o meno questa: di fronte all’avanzare della nuova civiltà comunale, portatrice dei valori borghesi del commercio e della concorrenza sconosciuti al mondo feudale –«la ragion di mercatura», come la chiamerà poi Boccaccio–, il clero secolare attraversa una fase di profondo declino, siamo agli inizi del ‘200. Rintanata nei palazzi vescovili tra Perugia, Viterbo e Roma, costretta a fare la spola per schivare la tempesta ereticale pauperista che imperversa nelle città, la corte papale sta perdendo progressivamente il controllo delle campagne, dove i focolari pagani non si sono mai spenti del tutto. Urge un esponente del mondo cristiano che riavvicini la Chiesa al suo popolo, specie dopo la svolta teocratica imposta da Innocenzo III nel 1215 e continuata dal suo successore Onorio.
Dai
corridoi del Laterano fino alle più minute casupole del contado, si comincia a
vociferare di un uomo dotato di profondo carisma, che fa sfoggio di poteri
sovrannaturali e riscuote un larghissimo consenso malgrado non sia un chierico,
e tanto meno un prelato, ma un laico figlio di mercanti; forse è proprio questo
dettaglio a renderlo gradito agli uomini e alle donne cui predica. Si chiama
Francesco, si è recato già più di una volta in udienza dal papa per chiedere che
la sua fraternitas venga riconosciuta dalle gerarchie. E malgrado il rifiuto di
papa Innocenzo, non si è rassegnato, costruendo col tempo una comunità di
seguaci che, specie nelle campagne, tra i vecchi pagani, ha il suo punto di
forza. Qual è il vero segreto del suo successo?
Vale la pena chiederselo oggi che Francesco d’Assisi è conosciuto e venerato come il santo cristiano per antonomasia. Vale la pena trovare oggi una risposta per non dimenticare le nostre vere radici religiose. E così decidiamo di metterci in viaggio sui ‘sentieri francescani’, col piglio disinibito del detective più che con la devozione incantata del fedele. Cerchiamo indizi, a otto secoli di distanza, per capire qualcosa di più sul conto del nostro santo nazionale e, nonostante lo scetticismo iniziale, perlustrando queste mulattiere diroccate scopriamo che le tracce compromettenti lasciate dal santo lungo i sentieri ci sono ancora, addirittura alcune sono clamorose.
Per
cominciare, ogni eremo francescano ha il suo albero sacro e una leggenda
fotocopia delle altre che ne tramanda la storia: fu lo stesso Francesco a
piantare quell’albero durante il suo soggiorno in una caverna posta a pochi
passi di distanza. Non solo; questi alberi ancora oggi rappresentano il vero
oggetto di devozione per i francescani negli eremi, malgrado le fonti ufficiali
approvate dall’Ordine non ne facciano mai menzione. Prendiamo il caso di un
eremo molto familiare ai devoti, se non altro perché è posto nelle immediate
adiacenze di Assisi. È l’Eremo delle Carceri del monte Subasio, dove i documenti
ci narrano che Francesco amava soggiornare durante la sua conversione. Raggiunto
il convento, che ha inglobato il primo rifugio del santo –una grotta di cui ci
rimangono ancora oggi le pareti rocciose, mai murate–, dal crinale del monte
spunta un arbusto malconcio, a cui è stata applicata una gabbia metallica per
evitare che esso si spezzasse col tempo a causa delle intemperie. Lo chiamano il
Leccio sacro, e la devozione legata a quest’albero si deve al fatto che degli
uccelli in volo si sarebbero posati sui suoi rami per ascoltare la predica
tenuta dal santo.
Cambiamo
scena. Ci troviamo ora allo Speco di Vasciano, nelle vicinanze di Narni –città
famosa per aver ispirato, tra l’altro, le omonime Cronache di Lewis. Siamo
all’incirca nella primavera del 1212. Francesco esce dalla caverna in cui ha
deciso di raccogliersi in preghiera e, dopo aver reso grazie al Padreterno,
impugna il suo bastone e lo conficca nel terreno. Dalla corteccia di quel legno
spunterà in breve, secondo la leggenda condita dal solito pizzico di credulità
popolare, quello che a tutti i visitatori è noto oggi come il Castagno sacro.
Non solo. Se siete nei paraggi e vi capita di passare da quelle parti, forse vi
imbatterete anche voi in qualche devoto francescano a piedi nudi che, come
attestato anche dalla tradizione, schiaccia i ricci caduti dai rami dell’albero
per fare penitenza. La stessa situazione si ripete in una miriade di altri
luoghi, basta citare solo i più conosciuti, dal Faggio di Rivodutri al Cipresso
di Verucchio, passando per il «santo Elce» della
Romita di Cesi, fino al Cipresso di Ischitella Gargana in Puglia, oggi
malinconicamente soffocato nel cemento.
Ma
ci sono anche degli alberi che non sono sopravvissuti alle ingiurie del tempo; è
il caso, ad esempio, della Quercia della Verna, abbattuta nel 1602 dai frati e
sulle cui radici fu eretto non il solito altare per dire messa, ma una cappella
alla memoria con un nome che è tutto un programma, un nome che più pagano non si
potrebbe: la Cappella degli Uccelli. Sulle sue radici, infatti, si sarebbe
adagiato per l’ennesima volta uno stormo di uccelli in volo durante la prima
visita del santo al monte, avvenuta nel 1214 –l’episodio è narrato anche nei
Fioretti (ff 1903). Verrebbe da dire: «Cavoli! Proprio come alle Carceri, e come
a Narni, e come…» In parole povere, se due indizi
fanno una prova, qui abbiamo già in mano il nome dell’assassino.
Certo, i fedeli cristiani che oggi pregano e fanno penitenza sotto quegli alberi non immaginerebbero mai di stare contemplando degli idoli pagani, ma guai a stupirsi di questa apparente stranezza.
Per
riscuotere successo nelle campagne e predicare a quei contadini che la Chiesa
aveva da secoli bistrattato distruggendone gli idoli, infatti, Francesco capì
che per lui gli alberi e il loro culto potevano trasformarsi in un prezioso
alleato. Se nelle città riscuoteva il plauso del popolo, esaltando i valori di
austerità e pauperismo evangelici, quei valori tanto vituperati dal Clero degli
ierocrati cresciuto nello sfarzo e nella simonia, nelle campagne la ricetta del
consenso era un’altra e passava attraverso il ventaglio di usanze contadine di
matrice non solo celtica, ma comuni a tutto il mondo contadino e tribale.
Si trattava di ridare voce al popolo dei pagi, rievocando usanze tanto ancestrali quanto demonizzate dalla Chiesa come appunto il culto degli alberi e delle sorgenti, anche a costo di rovesciare la parola del papa e calarsi nei panni di un vero e proprio stregone naturale. Uno stregone capace di piantare alberi in ogni dove, parlare agli uccelli e far zampillare l’acqua dalle rocce. E guarda caso, proprio il parlare agli uccelli era una pratica divinatoria condannata aspramente dai teologi e dagli inquisitori del Medioevo come grave reato di stregoneria; i manoscritti giudiziari del Duecento pullulano di miniature con aspiranti maghi e indovini intenti a conversare con uccelli appollaiati sui rami degli alberi. Certo, dando un’occhiata a queste miniature colpisce la somiglianza con l’affresco in cui Giotto dipingerà Francesco parlare agli uccelli.
Questa, però, è un’altra storia…
Bibliografia essenziale:
Link correlati:
Nota: le foto del presente articolo sono state realizzate dall’autore nel sentiero francescano della Romita presso Cesi (TR).
Autore Andrea Armati | Pubblicato il 24/11/2008