La vera storia del presepe di Greccio tra vacche guarite, oscure caverne e boschi sacri.
«È
il primo presepe della tradizione cristiana», si è
detto. «San Francesco, nella notte di Natale del 1223, fece apparire il bambin
Gesù su una mangiatoia», si è detto anche. E giù
sproloqui, «Francesco a Greccio realizzò il primo presepe della storia cristiana
con il bambin Gesù tra il bue e l’asinello.»
Per carità, non andate più a raccontare queste storie in giro. Fonti alla mano, infatti, sono tutte false. E non si tratta di forzature ideologiche dettate dal sospetto ateismo del sottoscritto; per sconfessare questi racconti, divulgati per secoli dalla pubblicistica cristiana, infatti, non ci vogliono schiere agguerrite di medievalisti; basta una semplice lettura dei documenti. Ma allora perché il presepe che realizzò San Francesco in uno sperduto borgo arroccato sull’Appennino umbro-laziale ebbe all’epoca tanto successo?
Come al solito, per trovare le risposte dobbiamo svestire i panni abituali del curioso e metterci a pedinare Francesco come dei veri detective, lungo uno dei sentieri che ne ha sancito più di tutti il successo. Il sentiero francescano di Greccio.
E la prima domanda con cui dobbiamo subito fare i conti è: ma perché proprio a Greccio il santo decise di allestire il presepe? Perché Francesco scelse questo castello minore, relitto dell’Alto MedioEvo, per compiere un gesto destinato all’intera comunità cristiana?
Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, ci fornisce degli indizi molto preziosi con un racconto che, se all’inizio appare gradevole, quasi idilliaco, nel finale invece assume risvolti a dir poco inquietanti…
Il santo si fermava volentieri nell’eremo di Greccio, sia perché lo vedeva ricco di povertà, sia perché da una celletta appartata, costruita sulla roccia prominente, poteva dedicarsi più liberamente alla contemplazione delle cose celesti. […]
Ora gli abitanti del luogo erano colpiti da diversi mali: torme di lupi rapaci attaccavano bestiame e uomini, e inoltre la grandine stroncava ogni anno messi e viti. Un giorno Francesco, mentre predicava, disse: “A gloria e lode di Dio onnipotente, ascoltate la verità che vi annunzio. Se ciascuno di voi confesserà i suoi peccati e farà degni frutti di penitenza, vi do la mia parola che questo flagello si allontanerà definitivamente e il Signore, guardando a voi con amore, vi arricchirà di beni temporali.[…]
Da quel momento, per i meriti e le preghiere del padre santo, cessarono le calamità, svanirono i pericoli e i lupi e la tempesta non recarono più molestia. Anzi, ciò che più meraviglia, quando la grandine batteva i campi dei vicini e si appressava al loro confine, o cessava lì o si dirigeva altrove.
Ma nella tranquillità crebbero di numero e si arricchirono troppo di beni materiali. E il benessere portò le conseguenze solite: affondarono il volto nel grasso e furono accecati dalla pinguetudine o meglio dallo sterco della ricchezza. E così, ricaduti in colpe maggiori, si dimenticarono di Dio che li aveva salvati. […] Si risvegliò contro di essi il furore di Dio e ai flagelli di prima si aggiunse la guerra e venne dal cielo un’epidemia che fece innumerevoli vittime. Da ultimo, un incendio vendicatore distrusse tutto il borgo.
È ben giusto che chi volge la schiena ai benefici vada in perdizione.[1]
In due parole, Tommaso sostiene che il santo lodava l’amenità di Greccio e apprezzava anche la perfetta condotta cristiana dei suoi abitanti, salvo poi scatenare l’inferno contro i paesani rei di essersi arricchiti e di aver commesso qualche veniale peccatuccio di gola. Inutile dire che la storia è a dir poco surreale, e ci costringe a sfatare il mito dell’universalità del presepe.
Quello che Francesco fece a Greccio nella notte di Natale del 1223 per convertire questo popolo di miserabili peccatori fu un fatto circoscritto agli abitanti della valle, che erano guarda caso tutti pastori e contadini; tanto circoscritto che la sacra messa di Greccio non si svolse nemmeno a Greccio, ma in una caverna posta lungo un tratturo delle transumanze che saliva su dalle pendici del monte Lacerone (sopra, una foto del santuario oggi, con gli edifici aggrappati alle rupi scoscese). Ce lo racconta Tommaso con una freschezza narrativa che trasuda di pathos e poesia, ma che conferma i nostri sospetti sulla vera natura della strana cerimonia natalizia di Greccio.
Questa notte è chiara come pieno giorno e deliziosa per gli uomini e per gli animali! […] La selva risuona di voci e le rupi echeggiano di cori festosi.[2] (dalla Vita Prima di Tommaso da Celano)
Anche Bonaventura, il biografo che nel 1263 fece piazza pulita di tutte le Vite di San Francesco rimaste in circolazione, nel narrare il fatto non fu da meno.
[…] il bosco risuona di voci e quella venerabile notte diventa splendente di innumerevoli luci, solenne e sonora di laudi armoniose.[3] (dalla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio)
Leggendo si rimane increduli: la messa di Natale celebrata in una caverna con tanto di processione nel bosco? Ma i vertici della Chiesa erano stati informati del fatto? Di certo, Francesco non era nuovo a officiare cerimonie di stampo cristiano negli antichi feudi della superstizione pagana; inoltre, era già da diverso tempo che le rappresentazioni sacre si erano spostate, per ovvi motivi di spazio, fuori dal perimetro delle chiese. Ma lasciarsi alle spalle le mura rassicuranti del castello e inoltrarsi nei nemeton dei pastori, battuti ancora da maghi e indovini, era una scelta a dir poco eretica –specie se fatta da un laico come Francesco, in odor di scomunica dopo la bocciatura della Regola– e abbisognava quindi di un permesso papale.
Se ne accorse 40 anni dopo il fattaccio Bonaventura il quale, per rimediare a un errore grossolano del suo predecessore Tommaso, che aveva attribuito la cerimonia di Greccio alla libera iniziativa di Francesco, si inventò di sana pianta un permesso papale concesso in via eccezionale da papa Onorio per realizzare il presepe nella caverna e di cui, ovviamente, non è rimasta alcuna traccia.
Tre anni prima della sua morte decise di celebrare, vicino al borgo di Greccio, il ricordo della Natività del bambino Gesù, con la maggiore solennità possibile, per rinfocolarne la devozione.
Ma perché ciò non venisse ascritto a desiderio di novità, chiese e ottenne prima il permesso del sommo pontefice.[4] (dalla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio)
Ma veniamo alla cerimonia clandestina di Greccio; cosa accadde esattamente quella notte? Chi arriva all’eremo della provincia di Rieti rimane parecchio stupito dalle dimensioni ristrette del santuario ed è costretto a constatare che la vera grotta in cui Francesco allestì il presepe altro non era che una piccola strozzatura nel ventre della montagna (a sinistra, una foto della nicchia dove si svolse la ‘cerimonia’). Insomma, un antro vero e proprio, più simile a quelle fenditure nella roccia in cui ai tempi di Francesco maghi e stregoni compivano vaticini e guarigioni miracolose, che a un tempio destinato ad accogliere decine di fedeli in preghiera. Un antro in cui difficilmente potevano passare più di cinque persone alla volta anche pensando, come ci dicono le fonti, che Francesco era di statura molto bassa; certo, sempre ammettendo che gli abitanti di Greccio non fossero tutti affetti da nanismo, ma questa eventualità è talmente remota che preferirei escluderla...
Ora però, dopo questo piccolo sopralluogo, torniamo nel recinto della storia.
Si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello.[5] (dalla Vita Prima di Tommaso da Celano)
Fece preparare una mangiatoia, vi fece portare del fieno e fece condurre sul luogo un bove e un asino.[6] (dalla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio)
Francesco, dunque, fa accomodare la greppia, conduce un bue e un asino fino al masso e lì compie il rito, o meglio, assiste diligentemente un prete con i paramenti diaconali perché, come abbiamo ricordato più volte, non aveva mai preso i voti. Ma il bambino dov’è finito? Di fatto, più rileggiamo il dettato delle fonti e più ci accorgiamo che del fantoccio usato per rappresentare il bambin Gesù nelle recite della Natività anteriori a Francesco[7], non c’è alcuna traccia.
Se ne accorse qualche anno fa anche la massima francescanista vivente, Chiara Frugoni, che per spiegare l’insabbiamento della verità nelle icone dell’epoca (nel caso specifico si parlava della pala Bardi di Firenze, che trovate nella foto qui sotto), scrisse queste parole…
Davanti all’altare una irrealistica rappresentazione del presepe; entro un piccolo ammasso di rocce emerge la minuscola testa del bue e dell’asinello che amorevolmente incombono sul bambino infagottato. È vero che Tommaso dice che “celebrantur missarum solemnia supra praesepem”, e che un amico del santo accomoda la greppia, pone il fieno ed introduce i due animali; ma nel racconto di Tommaso il bambino non c’è, è presente solo nella visione di un fedele, traduzione della predica di Francesco.[8]
L’assenza del fantoccio non sfuggì, ovviamente, agli agiografi che si trovarono spalle al muro, costretti a giustificare la mancanza di un bambino che nelle raffigurazioni presepiali del MedioEvo, invece, era abituale. Tanto più che a Greccio, quella notte di Natale del 1223, un prodigio era effettivamente avvenuto e non si poteva occultare perché i racconti dei frati misti alle dicerie dei pastori avevano creato intorno a quella cerimonia un’aura leggendaria senza precedenti. Di quale prodigio stiamo parlando? È curioso che, malgrado sia Tommaso da Celano che Bonaventura lo riportino nei dettagli, questo aneddotto sia stato omesso in tutte le rappresentazioni pittoriche divulgate dall’Ordine sul presepe nel corso dei secoli.
Il fieno che era stato collocato sulla mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia i giumenti e gli altri animali. E davvero è avvenuto che, nel territorio circostante, molti animali, colpiti da diverse malattie, mangiando di quel fieno furono da esse liberati.[9] (dalla Vita Prima di Tommaso da Celano)
[…] e il fieno della mangiatoia, conservato dalla gente, aveva il potere di risanare le bestie ammalate e di scacciare varie altre malattie.[10] (dalla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio)
La guarigione delle vacche, che fu il vero prodigio di quella fredda notte sul monte Lacerone, scomparve dalle raffigurazioni insieme alla caverna, sostituita dalle arcate di una chiesa imponente (vedi per esempio l’affresco di Giotto qui a fianco, o il dipinto quattrocentesco del Gozzoli più in basso); e non ci vuole molto a capire che, se papa Gregorio Magno aveva definito a suo tempo la pittura “la letteratura degli illetterati”, e se l’agiografia di Tommaso ad usum chori e quella del 1264 scritta da Bonaventura erano interne all’Ordine, il popolo non avrebbe mai saputo la verità sul presepe di Greccio, con i frutti che tutti noi constatiamo ancora oggi sotto i nostri occhi. Semplificando, è un po’ quello che accade oggi con il controllo diretto esercitato dalla politica sui mass-media; censurare il materiale scritto veicolato da libri e riviste, e peggio ancora, da internet, è pressoché impossibile, ma a chi comanda questo non crea particolari preoccupazioni perché sa benissimo che per orientare l’opinione pubblica è sufficiente tenere sotto controllo il tubo catodico. Così succedeva nel Medioevo per le pitture, dirette alla massa analfabeta dei popolani che affluivano nelle chiese.
Tornando al presepe, il bambino allora che fine ha fatto? Come fecero gli agiografi, e per primo Tommaso da Celano, a giustificare l’assenza del fantoccio-Gesù sulla mangiatoia? Semplice, inventandosi un finto miracolo e addebitandolo a un anonimo vir virtutis, cioè a un uomo di virtù che solo 40 anni dopo i fatti Bonaventura, volendo dare alla storia un briciolo di credibilità, riconobbe nel defunto conte Giovanni Velita.
Confrontate i documenti tra loro per farvi un’idea:
[…] e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Vide nella mangiatoia giacere un fanciullino privo di vita, e Francesco avvicinarglisi e destarlo da quella specie di sonno profondo.[11] (dalla Vita Prima di Tommaso da Celano) [nota bene: questo racconto è il più diretto perché è successivo di appena 5 anni al fatto]
Un cavaliere virtuoso e sincero, che aveva lasciato la milizia secolaresca e si era legato di grande familiarità all’uomo di Dio, il signor Giovanni di Greccio, affermò di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullino addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno.[12] (dalla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio) [questa narrazione, invece, fu divulgata invece solo nel 1263, cioè ben 40 anni dopo l’accaduto]
Riassumendo, un uomo di virtù –il conte Giovanni Velita??– vide un bambino cullato tra le braccia di Francesco e questo bastò alla tradizione iconografica successiva per far gridare al miracolo quando il nostro sconosciuto uomo di virtù era stato protagonista al massimo di una visione. Così l’ordine dei fatti era stato capovolto; il fieno della mangiatoia non guarì i giumenti perché lo stregone Francesco vi aveva officiato sopra in una caverna angusta immersa nel fitto del bosco, ma perché invece il Gesù bambino era apparso a un anonimo mister X sulla mangiatoia vuota mentre Francesco vestiva i panni di un semplice ed “ossequiente diacono[13]”, magari in una chiesa costellata di capitelli sontuosi.
E adesso qualcuno potrebbe lamentarsi ancora, dicendo: “Ma suvvia! E la presenza del bue e dell’asino allora come la spieghi? È evidente che Francesco voleva rievocare in tutto e per tutto la Natività di nostro Signore Gesù Cristo!”
Sì, può darsi; peccato solo che il bue e l’asino non esistano nei quattro Vangeli canonici, ma siano un rettaggio dei cosiddetti apocrifi non riconosciuti dalla Chiesa (nel caso specifico, un retaggio dello Pseudo-Matteo[14]).
Se Francesco avesse voluto davvero realizzare una raffigurazione presepiale simile a quelle che da secoli ormai si mettevano in scena nelle chiese, non si sarebbe mai potuto rifare al dettato degli Vangeli apocrifi[15].
Quindi, è evidente che per fare breccia nel cuore dei fedeli e compiere da stregone taumaturgo un rito della terra, Francesco decise di giocare sull’immaginario dei pastori; tanto che omise il personaggio di Gesù, privo di significato nel paganesimo contadino, e condusse nella caverna intorno al masso animali assenti nelle rappresentazioni canoniche del presepe come il bue e l’asino, ma familiari ai devoti che quella notte erano accorsi trepidanti alla caverna proprio nella speranza di vedere guarite le loro bestie. La guarigione delle vacche fu la conferma che lo stregone di Assisi era effettivamente in possesso di un potere divino; certo, un potere più sciamanico che cristiano, ma questi sono solo dettagli.
In fondo, tra una messa cristiana e un rito pagano non ci sono poi tante differenze; ce l’ha insegnato anche Francesco, basta far sparire un fantoccio e il presepe pagano di Greccio è finalmente servito.
[1] Cfr. ff. 621.
[2]
Cfr. ff. 469.
[3] Cfr. ff. 1186.
[4]
Ibidem.
[5] Cfr. ff. 469.
[6] Cfr.
ff. 1186.
[7] Luigi Allegri spiega nel suo saggio sul teatro
medievale le modalità con cui tradizionalmente si allestiva il presepe negli
Officium Pastorum. Talvolta i personaggi di Maria e Gesù venivano richiamati da
un dipinto posto sulla sommità dell’altare. Cfr. Luigi Allegri, Teatro e
spettacolo nel Medioevo, Laterza, Bari, 1995, p. 165.
[8] Cfr. Chiara Frugoni, Francesco. Un’altra storia, Genova, Marietti, 1988,
pp.17-18.
[9] Cfr. ff. 471.
[10] Cfr. ff. 1186.
[11]
Cfr. ff. 470.
[12] Cfr. ff. 1186.
[13]
Cfr. Chiara Frugoni, op. cit., p. 18.
[14] Cfr. I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino, 1990, p.
82.
[15] Non bisogna dimenticarsi, a tal
proposito, la dura presa di posizione di papa Innocenzo III che pochi anni
prima, nel 1207, aveva censurato con una severa decretale tutte quelle
rappresentazioni che esulavano dal dettato dell’officio liturgico. Il bue e
l’asino, quindi, difficilmente avrebbero potuto trovare spazio. Cfr. ancora
Allegri, op. cit., p. 131-132.
Autore Andrea Armati | Pubblicato il 7/12/2008