E’ noto che la lingua inglese è ricca di espressioni d’origine latina.
Nel 1066, la conquista dell’Inghilterra da parte dei normanni
francesizzati di Guglielmo il Conquistatore portò alla sovrapposizione
all’antico anglosassone della parlata dei dominatori; ma i linguisti nella
generalità concordano che l’inglese è rimasto, ed è ancora oggi, nella
sostanza, una lingua germanica. Analogamente, nella stessa lingua
italiana, potremmo trovare con facilità apporti delle più svariate
origini: germanici, greci, arabi, persino turchi e giapponesi, ma nessuno
potrebbe mettere seriamente in dubbio che l’italiano è una lingua
neolatina.
La tesi che vorrei qui sottoporre a verifica è, se per quello che
riguarda le civiltà, non accada esattamente quello che accade per le
lingue, cioè, se sia ben vero che una civiltà possa nutrirsi degli apporti
più disparati, provenienti dalle diverse aree del pianeta, senza per
questo perdere la sua fisionomia sostanziale, o se, al contrario, sia
realistico pensare che essa possa essere in tutto tributaria a ciò che
deve alle altre culture.
In particolare, la tesi che vorrei qui verificare è che quella forma di
civiltà della quale noi stessi facciamo parte, e che può essere indicata
come europea od occidentale, (I due termini si possono considerare quasi
sinonimi: le Americhe possono in sostanza considerarsi una propaggine
relativamente recente dell’Europa, e lo stesso si può dire, a maggior
ragione, dell’Oceania), al di là degli apporti provenienti da altre aree
del mondo e da altri popoli, che non si possono obbiettivamente
disconoscere, non solo ha mantenuto nei secoli e nei millenni una propria
fisionomia originale, ma assai prima dell’età moderna, ha avuto un ruolo
determinante e fondamentale nello sviluppo complessivo della civiltà
umana.
Notoriamente, storici e docenti di storia sono stati invitati, negli
ultimi decenni, a guardarsi da quel peccato originale fondamentale ed
imperdonabile che sarebbe l’eurocentrismo, ossia il porre in rilievo
dominante, se non esclusivo, la storia del nostro continente. Bene, sarà
allora il caso di rilevare che, almeno per la storia antica,
l’eurocentrismo non esiste. Al contrario, laddove sono enfatizzate
popolazioni e culture obbiettivamente minori appartenenti all’area medio
orientale, grandi popolazioni europee portatrici di una cultura tutt’altro
che disprezzabile, e di non poco peso nella storia del nostro continente,
quali ad esempio i Celti, ricevono ben scarsa considerazione, perché?
Ci si collega visibilmente al peso che ha avuto la bibbia nel formare la
nostra concezione della storia, anche se ha fornito un canovaccio di base
che è stato rielaborato nei secoli dalla tradizione storica laica. Non
vorrei che questa considerazione suonasse offensiva nei confronti dei
sentimenti religiosi di nessuno; non ve n’è motivo. Dai tempi di Galileo e
di Darwin, la Chiesa cattolica e le più avvedute fra le chiese protestanti
hanno rinunciato alla pretesa che la bibbia venga considerata come verità
letterale nelle questioni scientifiche. Dal punto di vista storico, la
bibbia è la storia del popolo ebraico e della regione in cui esso viveva
prima della diaspora, ed a questo livello si può anche concedere che sia,
a quanto sembra, notevolmente accurata, ma, leggendola come storia
universale, le si mette in bocca ciò che essa non dice, non può dire, né
ha la pretesa di farlo.
Ex oriente lux, ma sarà poi vero? Secondo alcuni, tutte le civiltà umane
avrebbero un’unica origine, da ricercarsi non si sa bene dove. Poiché si
sa che le piramidi egizie ed i megaliti britannici, fra cui il più noto è
il complesso di Stonehenge, sono grosso modo contemporanei, qualcuno dei
sostenitori dell’origine unica delle civiltà ha ipotizzato che le isole
britanniche potrebbero esser state colonizzate da un ramo degli Egizi, che
vi avrebbe eretto i megaliti.
Ora le scoperte archeologiche più recenti hanno dimostrato che i
megaliti sono più antichi delle piramidi. Per coerenza, i sostenitori
dell’origine unica, avrebbero dovuto concludere che sono stati i britanni,
costruttori di megaliti, a recarsi nella valle del Nilo per erigervi le
piramidi, ma ovviamente nessuno è arrivato a tanto.
Bisogna notare che la tesi dell’origine policentrica delle civiltà
umane, è una tesi illuminista, che presuppone la fiducia nella razionalità
umana, e nell’uomo stesso che, ogni volta che le condizioni storiche ed
ambientali lo consentono, è in grado di darsi quel livello di via che
definiamo civile. Al contrario, la tesi dell’origine unica è una tesi
pessimista che nega la capacità degli uomini di progredire senza un
intervento civilizzatore esterno, e rivela un alone di misticismo ruotante
intorno alle figure dei supposti “grandi iniziati” od iniziatori
dell’umano incivilimento, e quale sarebbe la supposta civiltà madre?
Atlantide? Togliendo le elucubrazioni moderne, reggentisi su capocchie di
spillo, non abbiamo altro che la narrazione favolosa di Platone, e neppure
un indizio di natura archeologia o geologica. Certo, la tettonica a zolle
e la deriva dei continenti ci dicono che un tempo vi era terra emersa là
dove oggi vi è l’oceano Atlantico, ma questo è avvenuto alcune decine di
milioni di anni fa, può illuminarci sul divenire delle famiglie di
dinosauri, non sulle origini della civiltà umana.
Ma, ad ogni modo, postulare l’esistenza di Atlantide (o di Lemuria, o di
Mu, o di quant’altri continenti perduti cui si voglia far assolvere la
medesima funzione), serve solo a spostare il problema, non a risolverlo;
se la natura umana fosse di per sé così riluttante alla civilizzazione,
rimarrebbe da spiegare come abbia potuto la scintilla della civiltà
accendersi per la prima volta nella stessa presunta civiltà madre.
Contatti con extraterrestri o che cosa? E’ chiaro che quest’impostazione
rischia di deragliare del tutto dal piano dell’indagine scientifica
razionale.
Nel 1992 è avvenuta una scoperta che dovrebbe indurci a rivedere le
nostre idee sulla preistoria. In quell’anno, il ritiro del ghiacciaio del
monte Similaun, al confine fra Italia ed Austria, ha portato alla luce la
mummia di un uomo, verosimilmente morto per congelamento, che vi giaceva
da cinque millenni e mezzo. “L’uomo del ghiaccio” si ritenne fosse
ritrovato in territorio austriaco, ma successivamente ci si accorse che vi
era stato un errore nella posizione del cippo di confine, e che, in
effetti, si trovava sul suolo italiano. Dopo esser stata conservata e
studiata a Vienna, la mummia è stata restituita all’Italia nel 1997. Ad
ogni modo, è ovvio che non ha molto senso voler considerare “italiano” od
“austriaco” un uomo vissuto in età neolitica, e non è possibile accertare
con sicurezza da quale dei due versanti della montagna, Iceman, od Oetzi,
com’è stato soprannominato, provenisse, sebbene la maggior vicinanza
d’insediamenti contemporanei sul versante meridionale, faccia propendere
per un’origine italiana. In ogni caso, questo ritrovamento mette comunque
in rilievo che lo sviluppo delle prime culture umane nella nostra penisola
andrebbe considerato tenendo conto non solo dei collegamenti con l’area
mediterranea, ma anche di quelli con l’area transalpina, centroeuropea.
Ma l’aspetto sorprendente della scoperta di Iceman è un altro: con
l’uomo è stato ritrovato un corredo di arnesi e di armi da caccia, un
arco, una faretra con delle frecce, e soprattutto quella che in un primo
momento è sembrata un’ascia di bronzo. C’era di che stupirsene: si suole
porre l’inizio dell’età dei metalli, l’età del rame, al 3000 avanti
Cristo, e l’età del bronzo attorno al 2500 avanti Cristo, mentre l’uomo
del Similaun, come hanno dimostrato quattro separati test del carbonio 14
condotti da diversi laboratori, è di mille anni più vecchio, un po’ come
trovare un orologio subacqueo al polso di un guerriero di Carlo Magno!
In parte, la sensazionalità della cosa è stata ridimensionata: l’ascia
di Iceman non è di bronzo, ma di una lega di rame ed antimonio, dovuta
probabilmente all’impurità del minerale di rame usato per la fusione, ma
ugualmente c’impone di retrodatare di cinquecento anni l’inizio dell’età
dei metalli.
Proviamo a rovesciare l’ottica con cui di solito si considerano questi
problemi. Il più antico essere umano riconoscibile come tale dei cui resti
fossili oggi disponiamo, è l’homo abilis 1470, che venne ritrovato da
Richard Leakey sulle sponde del lago Turkana in Tanzania, ed è datato ad
un milione e novecentomila anni fa. L’homo erectus è vecchio di un milione
e mezzo di anni, ed homines erecti con cervelli di dimensioni simili alle
nostre, hanno cominciato a comparire tra novecentomila e settecentomila
anni fa. L’homo sapiens, cioè la nostra specie umana, infine, ha
duecentomila anni, cioè pur sempre un’età ragguardevole. Come mai la
scoperta dei metalli ha tardato tanto? Alcuni metalli, come il rame, che è
usato precisamente per questa ragione negli impianti elettrici, hanno un
punto di fusione molto basso. E’ possibile che in quest’enorme arco di
tempo, nessuno abbia acceso un fuoco su delle pietre contenenti minerale
di rame, ed osservato quegli strani rivoli che ne colavano?
La spiegazione è un’altra, più semplice: i cacciatori paleolitici non
sapevano che farsene dei metalli. A noi, uomini dell’età dei metalli,
della plastica, dei materiali sintetici, l’idea stessa di uno strumento di
pietra può far pensare a qualcosa di rozzo, al contrario, la tecnologia
litica aveva non soltanto nei suoi esempi migliori una notevole
pregevolezza estetica, basti pensare ad oggetti eleganti quali le amigdale
bifacciali od alle punte di freccia della cultura folsom degli indiani
nordamericani, ma, quel che più conta, perfettamente adeguata alle
necessità degli uomini paleolitici. Dei paleontologi americani hanno fatto
l’esperimento di scuoiare e squartare animali della savana utilizzando
delle lame di selce, ed hanno scoperto che tali operazioni riuscivano con
sorprendente facilità, molto più che non adoperando un coltello svizzero.
Anni fa, un archeologo inglese, sotto gli occhi delle telecamere, abbatté
un albero impiegando un’ascia neolitica di pietra levigata, in pochi
minuti e senza sforzo. L’utensile di pietra, inoltre, è ricavato da
materiali più facilmente reperibili di quelli di metallo, si spezza più
difficilmente, non arrugginisce, non perde il filo. Dobbiamo allora porci
il problema inverso e chiederci perché, ad un certo punto, è nata la
tecnologia dei metalli.
Le tecniche di lavorazione della pietra, sia scheggiata, sia levigata,
erano di una notevole complessità, ed è probabile che fossero possedute
solo da un numero ristretto di artigiani, ciascuno dei quali doveva
dedicare molto tempo alla creazione di un singolo strumento, ed è
verosimile che essi, ad un certo punto, non siano più riusciti a tenere
dietro alla domanda di utensili. Realizzare un crogiolo poteva richiedere
anche molto più tempo di quello occorrente alla produzione di uno
strumento litico, ma in esso potevano essere poi compiute, con poco
dispendio di tempo per ciascuna di esse, decine, centinaia, migliaia di
fusioni di nuovi attrezzi.
Poiché la produzione di strumenti litici era stata fino allora adeguata
alle necessità delle comunità umane, ciò fa pensare ad un incremento
demografico, la cui spiegazione più probabile è data dalla diffusione
dell’agricoltura. Sembra si possa considerare assodata l’associazione
agricoltura-metalli, nel senso che l’uso dei metalli sembra essere
divenuto pratica corrente in società già agricole e sedentarie in fase di
espansione demografica. Questo non significa che l’uomo del Similaun non
fosse un cacciatore, come suggerisce il resto del suo corredo di utensili,
ma rende verosimile che appartenesse ad una società già agricola. Ma se
questo è vero, può essere avanzato qualche ragionevole dubbio sull’origine
mediorientale dell’agricoltura nel bacino mediterraneo, data finora per
scontata. In Medio Oriente, analoghi attrezzi di rame non compaiono che
cinque secoli più tardi.
Negli ultimi anni, gli indizi in questo senso si sono moltiplicati. Vi
sono tracce che fanno pensare che lo sfruttamento di alcune antiche
miniere balcaniche possa essere iniziato attorno al 4.000 avanti Cristo,
seimila anni fa, in quella che per la cronologia ufficiale dovrebbe essere
ancora piena età neolitica, ma soprattutto la scoperta ad Elsloo, non
lontano dalla costa frisone del Mare del Nord, dei resti di un antico sito
agricolo all’incirca contemporaneo di quelli mediorientali.
Un altro indizio importante che c’impone di rivedere le nostre opinioni
sull’argomento, è questo: presso tutte le popolazioni umane, il latte è,
nell’infanzia e nella prima giovinezza, un alimento di alto valore
nutritivo e facilmente digeribile, ma, con il progredire dell’età,
diminuisce la capacità di assimilarlo. Tuttavia, la diminuzione di questa
capacità metabolica varia considerevolmente nelle diverse popolazioni:
quelle dell’Europa centrosettentrionale la conservano praticamente intatta
per tutta la vita, mentre essa tende a diminuire man mano che ci spostiamo
verso sud, in direzione del Mediterraneo. Gli italiani, ad esempio, sono
agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda il consumo di latte fresco
da parte della popolazione adulta. In questo caso, però, non sembra
trattarsi di un’abitudine alimentare che sarebbe saggio o giustificato
cercare di correggere. A quanto pare, da adulti digeriamo il latte meno
bene delle popolazioni del Centro e del Nord Europa. Non grandi
consumatrici di latte fresco, tuttavia le popolazioni dell’Europa
mediterranea sono produttrici e consumatrici di latticini e formaggi in
misura considerevole, ma se ci spostiamo fuori dell’ecumene
europeo-mediterraneo, ecco un’altra sorpresa: nella cucina orientale i
latticini sono del tutto assenti, come ben sanno, ad esempio, gli
estimatori della gastronomia cinese, che negli ultimi anni ha guadagnato
estimatori anche da noi.
Si tratta, con ogni evidenza, di abitudini alimentari molto antiche.
Ancora un dato che ce lo può confermare: i Greci chiamavano i Celti
“Galati”, cioè né più né meno che “bevitori di latte”, così come i
Tedeschi oggi sono chiamati da molti “mangiapatate”.
Cosa significano questi dati? La spiegazione più probabile è che le
popolazioni del centro e del nord dell’Europa siano state le prime ad
allevare animali da pascolo, e, di conseguenza, ad impiegare il latte di
questi animali come alimento, non solo per i bambini, ma anche per gli
adulti. La selezione darwiniana che, non dimentichiamolo, continua ad
agire all’interno della specie umana come di tutte le altre, avrebbe
favorito in queste popolazioni quei geni che consentivano di metabolizzare
il latte, anche di specie diverse da quella umana, ed anche in età adulta.
L’ascia di rame dell’uomo del Similaun e gli altri indizi che ho
menzionato, ci offrono l’indicazione suggestiva che due scoperte
fondamentali per l’umanità, quali l’agricoltura e la metallurgia,
potrebbero essere avvenute in Europa piuttosto che in Medio Oriente, ma
qui abbiamo la prova, considerevolmente persuasiva che la tappa che, con
ogni verosimiglianza, le ha precedute, la domesticazione e l’allevamento
di animali, è stata raggiunta in qualche punto dell’Europa, fra l’arco
alpino e la Scandinavia.
Se passiamo ad esaminare l’età protostorica, c’imbattiamo in una cultura
centrooccidentale europea considerevole, il cui ruolo è stato a lungo
misconosciuto: quella dei Celti.
Noi abbiamo in primo luogo un patrimonio di elaborazione culturale
mitologica e folklorica notevolissimo, sebbene filtrato, giunto fino a noi
attraverso e nonostante le invasioni e le dominazioni di popoli che hanno
spazzato via il mondo celtico, latini e germani: il ciclo mitologico
irlandese dei Tuatha De Danannaan, il poema di Cu Culainn, il ciclo
bretone arturiano con il mito del Graal, divenuto centrale nella mitologia
medioevale nella sua versione cristianizzata. Persino un piccolo angolo
del superstite mondo celtico, quale la Cornovaglia ci ha dato un mito
suggestivo come la storia dell’infelice amore di Tristano e Isotta, ma in
più c’è tutto il ricchissimo patrimonio folklorico popolare, con le sue
leggende di folletti, elfi, gnomi, troll, banshee, riscoperto nel nostro
secolo dal celtic Revival di W. B: Yeats e lord Dunsany, e rielaborato in
forma letteraria dai romanzi di John R. R. Tolkien.
Ma anche nel campo della cultura materiale, il mondo celtico appare oggi
più significativo e meno enigmatico che in passato. Stonehenge e gli altri
complessi megalitici non appaiono oggi più come isole di genialità
architettonica in un universo altrimenti barbarico. Dalle ricerche più
recenti, sembrerebbe che questi megaliti, o perlomeno alcuni di essi, non
fossero altro che le strutture portanti di costruzioni in legno o di
tumuli di terra pressata alla maniera dei tolos micenei, tombe regali o
veri e propri edifici di culto o civili. Di struttura appunto simile a
quella di un tolos, ma molto meglio realizzata dal punto di vista
costruttivo, con una volta architettonicamente perfetta, ed ornata di
eleganti petroglifi, è la tomba di Newgrange in Irlanda, recentemente
restaurata, che sembrerebbe risalire al 3.000 avanti Cristo, e dovrebbe
essere quindi la più antica costruzione al mondo giunta fino a noi. Ma
l'aspetto più sorprendente di quest’edificio è forse un altro: una fessura
collocata sopra l’architrave si trova allineata con la posizione del sole
che sorge all’alba del solstizio d’inverno. Allora, in coincidenza con il
cambio dell’anno, l’interno della costruzione è attraversato per una
quindicina di minuti da una lama di luce che crea un intenso effetto di
intensa suggestività. Questo fenomeno ci rimanda non soltanto all’abilità
costruttiva, ma anche alle conoscenze astronomiche degli antichi Britanni,
del resto evidenziate da molti allineamenti di complessi megalitici, a
cominciare da quello di Stonehenge, che coincidono con fenomeni
astronomici, quali solstizi od eclissi. Newgrange non cede per antichità,
meraviglia e fascino, alle tanto decantate costruzioni della Valle del
Nilo.
Forse meno suggestivi, ma non meno enigmatici, sono i forti vetrificati
scozzesi dell’Età del Ferro. Un centinaio di fortezze sparse in tutta la
Scozia, accomunate da una misteriosa particolarità: le rocce che le
compongono sono state fuse insieme in modo da costituire un’unica,
compatta massa silicea praticamente indistruttibile. Gli archeologi non
sono riusciti a stabilire con quali tecniche possano essere state prodotte
le altissime temperature necessarie a ciò. Un altro esempio di tecniche
misteriosamente avanzate in possesso di uomini che siamo soliti
considerare preistorici. Vi sono poi nella Britannia meridionale i resti
di strade di legno costruite attraverso il terreno acquitrinoso delle
torbiere, sorrette da palizzate infisse nel terreno fangoso, e costituite
da lunghe file di traversine che, dal punto di vista ingegneristico, si
possono contare fra le più notevoli ed ingegnose opere dell’antichità.
Millecinquecento anni prima dei Vichinghi, le navi dei Celti
affrontavano le onde dell’Atlantico, e costituivano uno dei fulcri di una
società di marinai, artigiani e commercianti fra le più sviluppate del
mondo di allora; per nulla dire dell’artigianato e dell’oreficeria
celtica, la cui perizia ed il cui gusto cominciamo appena oggi ad
apprezzare.
I Celti si spinsero nelle loro migrazioni verso il sud e l’est, quindi
seguendo la via esattamente opposta a quella che si suppone percorsa dalle
ondate civilizzatrici di cui avrebbe beneficiato l’Europa, fino alla
penisola anatolica. Dal nome che i Greci davano loro, Galati, è derivato
quello di una regione dell’Asia Minore, la Galazia, da loro popolata, e
quello di un quartiere di Istambul, Galata.
Ma i Celti non sono la sola popolazione dell’Europa antica ingiustamente
sottovalutata. Immaginiamo di avere l’una accanto all’altra due
illustrazioni, una riproducente un esempio di statuaria iberica, ad
esempio la stupenda “dama di Elche”, così sorprendentemente simile, nella
fattura, alla statuaria greca, l’altra riproducente una figurina fenicia,
ad esempio proveniente da monte Sirai o dal tophet di Mozia: se una
didascalia c’informasse che l’una delle due figure è l’espressione
artistica di una grande civiltà diffusa in ogni angolo del Mediterraneo,
alla quale sono attribuite notevoli invenzioni entrate nel patrimonio
culturale della civiltà classica e dell’intera umanità, e l’altra il
prodotto di un oscuro popolo barbarico che raramente i testi di storia
antica si degnano di menzionare, credo che ci sarebbero pochi dubbi sul
fatto che la maggior parte di noi attribuirebbe la dama di Elche al primo,
e la figuretta fenicia, che ci colpirebbe per la sua rozzezza e
primitività, al secondo.
Certamente si può obiettare che i canoni estetici dei Fenici, che sono
antecedenti a quelli della grecità classica su cui si è formato il gusto
occidentale, non hanno alcun obbligo di coincidere con i nostri, e che,
d’altra parte, l’arte moderna si è parecchio allontanata da quell’estetica
che ne ha guidato le espressioni per millenni, con qualche lieve
oscillazione del gusto, all’incirca dalla pittura vascolare attica a
Delacroix, nondimeno, c’è una naturale resistenza a pensare che la cultura
che ha prodotto opere della squisita fattura della dama di Elche possa
essere così insignificante e marginale da non meritare l’attenzione dei
testi storici (e sarebbe ancora il meno) e l’interesse degli archeologi.
Si potrebbe tracciare la storia della civiltà europea dal neolitico
all’età moderna, ed allora si vedrebbe chiaramente che è la storia di uno
sviluppo progressivo e costante sulle proprie basi, rispetto al quale gli
apporti esterni, seppur significativi, non segnano mai una vera soluzione
di continuità. Almeno parzialmente, questo lavoro è stato fatto ne Le
origini della civiltà europea, uno dei Quaderni de “Le scienze”, a cura di
Francesco G. Fedele, che raccoglie articoli pubblicati dalla prestigiosa
rivista scientifica negli ultimi decenni, sulle scoperte dell’archeologia
europea, dalla preistoria al medioevo, ed il quadro che ne emerge, è
appunto di una sostanziale continuità nello sviluppo dell’Europa (1).
Tra le popolazioni germaniche, soprattutto i Franchi eccellevano nella
metallurgia, e questo fu certamente uno dei fattori che consentì loro di
avere il sopravvento su tutti gli altri popoli germanici. Si ricorderà
l’esclamazione del re longobardo Desiderio, mentre contemplava le pesanti
corazzature della cavalleria franca dagli spalti di Pavia assediata: “Il
ferro, ahimè il ferro!”.
Un’invenzione dei metallurghi franchi destinata ad avere enormi
conseguenze, fu la staffa. La staffa rivoluzionava l’uso tattico della
cavalleria. Il cavaliere piantato sull’arcione poteva scaricare
verticalmente il proprio peso, ed avere entrambe le mani libere per
impugnare la spada o la lancia, e lo scudo, laddove il cavaliere privo di
staffe doveva tenere le gambe strette attorno alla pancia del cavallo, e
tenere sempre una mano sui finimenti o sul collo dell’animale.
Le corazze di acciaio e le staffe fecero della cavalleria franca una
delle più formidabili macchine belliche che il mondo avesse fin allora
conosciuto. Fu questa macchina bellica a fermare a Poitiers lo slancio
conquistatore degli arabi che, dopo aver abbattuto il regno visigoto di
Spagna e superati i Pirenei, stavano dilagando nella Gallia. Questa
battaglia, forse una delle più cruciali della storia umana, assunse
aspetti di drammatica epopea. I Franchi di Carlo Martello combatterono per
tre giorni e tre notti con accanimento incredibile, quasi fossero
consapevoli che alle loro spalle non vi era nulla in grado di resistere
all’ondata conquistatrice mussulmana e che, se avessero ceduto, l’Europa
sarebbe stata sommersa dall’Islam.
Diversi storici hanno cercato di attribuire, con una perseveranza degna
di miglior causa, una provenienza orientale anche all’invenzione della
staffa. Mi sia concessa una punta di sarcasmo: costoro danno l’impressione
di pensare che, senza un qualche influsso civilizzatore da oriente, noi
Europei non sapremmo neppure contarci le dita delle mani!
Nell’alto Medio Evo le popolazioni ugrofinniche, barbari circondati da
un alone terrorizzato di ferocia sanguinaria, che costrinsero alla fuga
gli stessi Germani (che si riversarono sull’Occidente romano fuggendo
dinanzi agli Unni), apportarono all’Europa un’invenzione destinata a
modificare, direttamente od indirettamente, la sua geografia fisica ed
antropologica, a far emergere le regioni centrosettentrionali del nostro
continente, fin allora meno favorite rispetto a quelle mediterranee, ed
anche questo si può, nella sostanza, considerare un progresso endogeno al
nostro continente.
Gli Ugrofinni portarono nell’Europa centrale e mediterranea l’attacco a
collare del cavallo da tiro, probabilmente modellato sui finimenti dei
cani da slitta. Nell’antichità si usava un’imbracatura che comprimeva la
cassa toracica del cavallo, e, rendendo difficoltosa la respirazione,
riduceva considerevolmente la forza lavoro dell’animale. Non è esagerato
dire che, con l’attacco a collare del cavallo da tiro, una nuova risorsa
energetica si trovava a disposizione dell’Europa. Le conseguenze di ciò,
dovevano essere rivoluzionarie soprattutto per l’Europa centrale, la cui
vita e la cui geografia antropica ne vennero completamente cambiate. Sono
gli autori Louis Pauwels e Jacques Bergier noti per il celebre Mattino dei
maghi ad informarcene nel libro L’uomo eterno. Un vantaggio potenziale
dell’Europa centrale rispetto a quella mediterranea, era la disponibilità
di vie d’acqua, fiumi ampi, lunghi e dal corso poco impetuoso, che ora
potevano essere risaliti da barconi dal fondo piatto, trainati da un
cavallo aggiogato su ciascuna delle due rive. Il centro dell’Europa, in
tal modo, si trovò di colpo a disporre di una sorta di “rete autostradale”
naturale (2).
Ma c’è molto di più: la disponibilità di una nuova forza lavoro era
destinata a rivoluzionare l’agricoltura centroeuropea. Mentre i terreni
dell’Europa mediterranea sono perlopiù leggeri, prevalentemente sabbiosi,
per i quali il tradizionale aratro semplice in uso fin dall’antichità
risultava pienamente adeguato, mentre lo stesso aratro riusciva appena a
scalfire i pesanti terreni prevalentemente argillosi dell’Europa centrale.
Il cavallo da tiro consentì la diffusione tra l’VIII e l’XI secolo di un
nuovo tipo di aratro, l’aratro pesante, dotato di vomere asimmetrico, di
coltro (un “coltello” per tagliare le zolle), un versoio per rovesciarle,
e munito di ruote. L’aratro pesante era, per la verità, in uso già prima
di allora, ma l’elevata quantità di forza lavoro animale richiesta,
s’impiegavano da due a quattro paia di buoi, ne aveva drasticamente
limitato l’impiego, mentre ora, con il cavallo da tiro, diventava di uso
relativamente comune. Di pari passo con l’impiego del cavallo da tiro
nell’aratura, andò la diffusione della pratica della rotazione triennale
delle colture, che consentiva di ridurre dalla metà ad un terzo la
superficie agricola che annualmente doveva essere lasciata “a maggese”,
cioè improduttiva per poter recuperare la propria fertilità. L’importanza
di questi fattori, ed il loro reciproco collegamento è sottolineata da
Scipione Guarracino (3).
Il cavallo da tiro, l’aratro pesante e la rotazione triennale
migliorarono grandemente le condizioni dell’agricoltura nell’Europa
centrosettentrionale, al punto che tra l’XI ed il XIII secolo, i contadini
tedeschi si spinsero a colonizzare nuove terre oltre l’Elba, e poi oltre
l’Oder, in direzione della Vistola e del Baltico.
L’Europa assunse la fisionomia antropologica moderna. E’ a partire da
questo momento, in cui l’Europa centrale e nordica abolisce la condizione
d’inferiorità che l’aveva fin allora caratterizzata nei confronti del
mondo mediterraneo, che si gettano le basi di tutti gli sviluppi
successivi, anche della grandiosa espansione che, a partire dal XV secolo
porterà quella che in termini puramente geografici non è che una modesta
propaggine dell’Asia, al dominio mondiale.
Mi sembra che tutto ciò possa suffragare una conclusione eretica e
scandalosa che, a questo punto, mi sentirei di proporre. A chi, od a che
cosa si deve la grandezza che l’Europa ha manifestato per tanti secoli?
Forse darà fastidio a qualcuno od a molti, ma io penso che si debba
essenzialmente agli Europei, e fra di essi i Celti hanno avuto un ruolo
fondamentale che solo oggi cominciamo a riscoprire.
›
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Autore Fabio Calabrese
|Pubblicato il
NOTE
(1) A cura di Francesco G. Fedele, Le origini della civiltà europea, Quaderni de “Le scienze”, 1981.
(2) “Dal tempo della grandezza di Roma, le oche, specialità degli allevatori
della Gran Bretagna, venivano esportate fino in Italia a branchi che si
spostavano camminando sotto la guida di venti intermediari e attraversando la
Gallia, da Calais alle Alpi in circa un mese. Con la comparsa del cavallo da
tiro, lo stesso commercio e quello di altri prodotti, si svolse in parte con
barche che salivano e discendevano i fiumi, e in parte con pesanti carri che
svolgevano la stessa funzione delle odierne ferrovie. Il cavallo da tiro,
generalizzando la trazione di pesanti carichi sui lenti fiumi della Germania e
delle Fiandre, aprì questi paesi alla civiltà così bene che la loro funzione li
pose rapidamente allo stesso livello dell’Europa mediterranea, e finì anche per
sopravanzarla”.
Louis Pauwels e Jacques Bergier. L’uomo eterno (l’homme eternel), Mondadori,
Milano 1971, pag. 269.
(3) “Non c’è dubbio che i progressi del cavallo, già a partire dall’VIII
secolo, siano andati di pari passo con la rotazione triennale, una pratica
agronomica che consentiva di destinare una buona parte del suolo a colture
seminate in primavera e raccolte in estate, fra le quali l’avena occupava il
primo posto. Ricordiamo i vantaggi della rotazione triennale: essa riduceva
notevolmente la parte del suolo che nel corso dell’anno restava improduttiva (a
riposo, a “maggese”), dal 50 per cento della rotazione biennale al 33 per cento
di quella triennale; inoltre essa permetteva di diversificare le colture,
aggiungendo ai cereali autunnali quelli primaverili e una certa quantità di
piante leguminose, e di scalare in diversi momenti dell’anno i rischi delle
avversità meteorologiche”.
Scipione Guarracino: Storia dell’età medievale, Bruno Mondadori, Milano !992,
pag. 332.