Prendendo spunto da una recente ed appassionante discussione tra i soci di
Bibrax si è evidenziato come spesso si associ il zoroastrismo, l’antica
religione iranica, al complesso delle religioni “del deserto”, delle religioni
semitiche.
Errato, completamente. Gli antichi iranici erano popolazioni di ceppo
indoeuropeo, ed ancora oggi sono lingue indoeuropee quelle che si parlano nella
regione; quanto alla religione zoroastriana occorre ricordare che una variante
di essa superficialmente cristianizzata, il manicheismo, che in età antica si
diffuse nel bacino mediterraneo (ed alla quale aderì per un certo tempo anche
sant’ Agostino), entrò con ogni probabilità, assieme a neoplatonismo e
gnosticismo, in quella sintesi neopagana che fu rappresentata in epoca medievale
dal movimento cataro o albigese. Il catarismo, mi sono spesso chiesto, fu una
rinascita del paganesimo nell’Età di Mezzo, o semplicemente la riemersione di
una tradizione che non si era mai spenta, poiché la maggiore libertà delle
istituzioni comunali nei secoli XII e XIII aveva fatto illudere che ci si
potesse svincolare dal potere ecclesiastico e feudale?
Ma il tratto che ad ogni modo differenzia maggiormente il mondo iranico e la
religione di Zarathustra dalle culture semitiche e del deserto, è proprio il
fatto che essa è il prodotto di una cultura di agricoltori sedentari in
contrapposizione al mondo beduino dei pastori nomadi o seminomadi.
“Chi semina il grano”, proclama Zarathustra nell’Avesta, libro sacro dello
zoroastrismo, “chi semina il grano edifica l’ordine”.
Nel mondo semitico non sono/furono solo gli Arabi ad essere contrassegnati da
uno stile di vita beduino/pastorale/nomadico; ricordiamo che ancora in epoca
tarda gli Ebrei biblici erano di sedentarizzazione talmente recente, e talmente
digiuni di tecniche edilizie che re Salomone per erigere il tempio di
Gerusalemme dovette avvalersi di operai, capimastri ed architetti fenici; è la
bibbia a dircelo, e per questo lato non vedo motivo di mettere in discussione la
parola del testo sacro oggi più diffuso in Occidente. La stessa bibbia ci
presenta la contrapposizione fra Abele pastore e Caino coltivatore, ed è chiaro
con quale dei due il lettore è invitato ad identificarsi.
Al contrario, lo stile di vita sedentario e la coltivazione di un cereale ad
alta resa come il grano hanno consentito che vi fossero società in cui non tutti
erano impegnati nelle attività di produzione di alimenti; hanno consentito che
vi fossero artigiani, artisti, guerrieri, filosofi, scrittori, uomini di stato e
legislatori: essi sono la base e rimangono un po’ il simbolo delle civiltà
indoeuropee.
Non dovremmo dunque davvero stupirci di trovare presso i Celti, ma non solo
presso di loro, simbologie e rituali complessi, importanti per la vita della
comunità, legati alla coltivazione ed alla panificazione dei cereali.
L’anno scorso, mi è capitato di segnalare nelle mie Cronache del Friuli celtico
il fatto che a Trieste nel rione di Servola, rione che nella tradizione
triestina era rinomato per il lavoro della panificazione – affidato abitualmente
alle donne, le pancogole – è stata rimessa in vita una festa tradizionale, la
Festa del pane, cadente nel mese di maggio, approssimativamente in coincidenza
con la festività celtica di Beltane. Curiosamente, una celebrazione avente per
oggetto il pane ed i cereali, la festa del Bannock si trova anche nel mondo
gaelico, anch’essa coincidente con il periodo di Beltane; ne parla anche Umberto
Eco nel romanzo Il pendolo di Foucalt, e, cosa anch’essa assai curiosa, poco
fuori Servola si trova una necropoli del periodo romano e preromano nella quale
numerose inumazioni rivelano la presenza nella zona di popolazioni celtiche,
venete, e la fusione di entrambe le popolazioni con la cultura romana, la
necropoli di San Servolo, e il nome della località è quello dello stesso santo
che ha anche dato il nome al paese e poi rione triestino.
Quest’anno (2004) la festa si celebra mercoledì 26 maggio, ed apprendo non senza
sorpresa, che essa è diventata “Festa nazionale del pane” con tanto di
sponsorizzazioni della Presidenza della Camera, della Presidenza del Senato, del
Ministero delle Attività Produttive, anche se, in tutta onestà, non so se si
celebri fuori di Trieste.
Per non stare a ripetere, e per non dover ripetere gli anni prossimi quanto ho
scritto in occasione della scorsa ricorrenza nelle Cronache passate, ne ho fatto
un estratto che riporto qui di seguito sotto forma di articolo indipendente.
Vorrei aggiungere solo un’ulteriore piccola considerazione: il pane è un
argomento che ci potrebbe forse sembrare privo d’interesse, tanto siamo
assuefatti all sua presenza sulle nostre tavole, un fatto banale, quotidiano,
“pane quotidiano”, appunto; ma forse dovremmo soffermarci un po’ più spesso a
riflettere sul fatto che ancora oggi per gran parte dell’umanità il “pane
quotidiano” è qualcosa che non è sempre disponibile a sufficienza, ed un bene
prezioso.
Dalle “Cronache moderne del Friuli celtico” n. V, estate 2003.
Quest’umanità che si addentra nel nuovo millennio con poche certezze e con la
rinascita di antichi timori (dalle guerre di religione alle epidemie), sembra
avere un gran bisogno di riscoprire antiche e quasi dimenticate tradizioni, solo
che spesso è difficile rendersi conto di quanto esse siano antiche, di quanto la
strada proceda a ritroso nel buio della notte dei tempi.
A Trieste nel rione di Servola è stata rimessa in auge da quest’anno, con il
patrocinio del comune di Trieste e del Museo Etnografico di Servola, un’antica
tradizione ormai desueta, la “festa del pane” che si celebra dal 15 al 18
maggio. Ridando vita ad un’usanza molto antica, le “pancogole” come erano dette
nel dialetto locale le panificatrici, per l’occasione domenica 18 sfileranno
indossando i costumi tradizionali delle loro antenate e distribuendo pane. La
loro attività (un tempo appannaggio specificamente femminile) era una specialità
per la quale era rinomato il villaggio di Servola, oggi divenuto un rione di
Trieste.
Attorno a questo fulcro della manifestazione, ci saranno varie iniziative fra
cui laboratori artigianali e mercatino dell’artigianato, musica e balli, una
caccia al tesoro ed uno spettacolo di marionette, più grande tombola finale.
Da dove ha origine questa tradizione oggi ritornata in auge? Una festività del
pane coincidente all’incirca con il periodo di Beltane richiama subito alla
mente, se si ha un po’ di cultura storica, l’usanza scozzese del bannock che
Umberto Eco ha accuratamente descritto nel romanzo Il pendolo di Foucault di cui
riporto uno stralcio:
“[I fuochi di San Giovanni] è un rito antichissimo, praticato in quasi tutti i
paesi d’Europa. Si celebra nel momento in cui il sole è al sommo del proprio
cammino, San Giovanni è stato aggiunto per cristianizzare la faccenda (…) Il
pane lo mangiano la notte dei fuochi di Beltane, una festa di origine druidica,
specie nelle Highlands scozzesi (…) Impastano una torta di farina e d’avena e
l’abbrustoliscono sulla brace…poi segue un rito che ricorda gli antichi
sacrifici umani…sono delle focacce che si chiamano bannock (…) bannok in inglese
medievale, bannuc in antico sassone, bannach in gaelico è una sorta di tortino,
cotto sulla piastra o sulla griglia, di orzo, di avena o di altra granaglia”.
Il pendolo di Foucault, pag. 306.
Caso strano, non lontano si trova la necropoli di età preromana e romana di San
Servolo, recentemente studiata dal prof. Gino Bandelli, studio di cui è riferito
nel suo libro La necropoli di San Servolo, Veneti, Celti e romani nel territorio
di Trieste di recentissima pubblicazione (aprile 2003), e che ha messo in luce
una consistente presenza celtica. Dunque, noi abbiamo nella stessa zona
un’antica tradizione che ha tutta l’aria di essere la continuazione di un
antichissimo rito celtico ed una delle maggiori testimonianze archeologiche
della presenza celtica dell’area veneto – friulano – giuliana; occorrerebbe una
fede davvero illimitata nel dio delle coincidenze per non scorgere un nesso fra
le due cose.
A titolo di confronto, si può ricordare che fino a tutto il XIX secolo in Friuli
era in vigore un’altra usanza legata al pane di sicura origine celtica, solo che
il periodo interessato non era quello di Beltane, ma quello di Samain. Nella
mitologia celtica, come sappiamo, Samain, coincidente con la festività cristiana
di Ognissanti, era la notte fuori dal tempo che segnava il trapasso dell’anno,
notte nella quale i piani dell’esistenza si sovvertivano e si mescolavano, ed ai
morti era consentito uscire dalle tombe per ritornare fra i vivi che dovevano
placarli con offerte.
Per questo scopo nell’antico Friuli si usava appunto il pane. Nella versione
cristianizzata, il “pane dei morti” non veniva più offerto direttamente ai
defunti, ma ai paesani perché pregassero per la loro anima. Della persistenza di
questa usanza ancora nel tardo XX secolo ci dà testimonianza la scrittrice
friulana Caterina Percoto in una novella che si intitola appunto Il pane dei
morti.
“In molti luoghi del Friuli esiste un’antica pratica per cui ogni famiglia nel
dì d’Ognissanti dispensa al popolo una quantità di pane a seconda della propria
agiatezza. Non è già questa un’elemosina. Vengono a riceverlo tutti gli abitanti
del villaggio e prima d’assaggiarlo pregano per i defunti del donatore.
Contadini benestanti, capi di famiglia, artieri e mugnai, che in tutt’altra
occasione si vergognerebbero d’accettare la più piccola carità, in quel giorno,
confusi ai poverelli, battono alla tua porta e senza rossore ti domandano il
pane dei morti. Poi alla lor volta dispensano anch’essi la propria fornata.
Anzi, dove non ci sono signori, ogni contadino fa tanti grossi pani di
sorgoturco quante sono le famiglie del villaggio, e vanno in giro a riceverlo, e
a vicenda lo dispensano agli altri; sicché in quel giorno ognuno assaggia il
pane dei fratelli e prega per i loro defunti, mettendo così, almeno una volta
all’anno, in comunione il cibo, l’affetto e la preghiera”.
Caterina Percoto: Voci dai campi e dai monti, a cura di Mirella Lirussi, Agenzia
Libraria Editrice, Trieste 2000, pag. 215 –216.
Un bel pezzo di antropologia culturale che la letteratura ha salvato per
l’immemore posterità.
Si noti l’uso dei pani di sorgo (quello che la Percoto chiama “sorgoturco”),
così come il bannock era fatto, ci dice Eco, “con orzo, avena o altra
granaglia”. Con ogni probabilità, la coltivazione del grano è stata diffusa
prima nell’Italia padana poi nell’Europa centro – settentrionale dalla conquista
romana, ed ha soppiantato per l’alimentazione di tutti i giorni, ma non per gli
usi rituali, cereali più rustici il cui uso risaliva alle culture di La Tene e
Hallstatt.
Si ricorderà la menzione che ne fa Roberto Tirelli in Kurm; i Celti della Bassa
Friulana avevano conservato l’uso di cereali meno ricchi dal punto di vista
nutritivo del frumento, ma più adatti ad un ruvido clima settentrionale, quali
la spelta ed il tritico, ossia appunto il sorgo:
“Il periodo di La Tene nella pianura friulana corrisponde alla stanzialità, allo
sviluppo dell’agricoltura. Le coltivazioni dei Celti e delle altre popolazioni
preromane qui non erano quelle del bacino mediterraneo, ma piuttosto adatte ad
un clima più freddo, come probabilmente si riscontrava nelle stagioni d’allora”
( Kurm, pag. 26).
Si può anche ricordare il fatto che questi riti trovano poi una precisa
corrispondenza nel mondo romano: i Romani usavano, nel periodo più o meno
coincidente con Beltane, il rito della conferreatio, consistente nello
scambiarsi in segno augurale delle focacce di farro; non era però un’usanza di
origine latina, ma che avevano copiato dai Sibillini, popolazione stanziata sui
monti omonimi di ceppo – pare – sabino. Si tratta ad ogni modo di una serie di
usanze collegate con la coltivazione dei cereali che affondano le loro radici
alle origini stesse del mondo indoeuropeo, prima ancora della sua scissione in
Celti, Germani, Latini e via dicendo.
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Autore Fabio Calabrese
|Pubblicato il 27/05/2004